SCRIVERE RACCONTI di Flannery O’Connor
C’e’ chi dice che il racconto sia una delle forme letterarie più difficili, e io mi sono sempre
chiesta il perché di questa convinzione, visto che a me pare uno dei modi più spontanei e
fondamentali dell’espressione umana. Dopotutto, uno comincia ad ascoltare e a raccontare storie sin
da piccolo, senza trovarci nulla di particolarmente complicato. Ho il sospetto che tanti di voi
raccontino storie da una vita, eppure eccovi qui seduti, tutti desiderosi di sapere come si fa.
Poi la scorsa settimana, dopo essermi tranquillamente appuntata un po’ delle idee da usare
oggi, l’arrivo di sette vostri manoscritti ha messo a dura prova la mia calma. Dopo quell’esperienza
sono pronta ad ammettere che il racconto, pur senza arrivare a definirlo una delle forme letterarie più
difficili, e’ quantomeno più difficile per alcuni che per altri.
Ho tuttora il sospetto che molti possiedano inizialmente una certa abilita’, che pero’ va persa
strada facendo. Certo, l’abilita’ di creare vita con le parole e’ essenzialmente un dono. Se ce l’hai già in
partenza, puoi perfezionarla; se invece non ce l’hai, tanto vale lasciar perdere.
Secondo me, pero’, sono proprio quelli che non ce l’hanno, a incaponirsi di più nello scrivere
racconti. E sono anche convinta che si tratta degli stessi che poi pubblicano libri e articoli su “come
scrivere un racconto”. Una mia amica, che sta seguendo un corso per corrispondenza sull’argomento,
mi ha mostrato qualche capitolo con titoli del tipo “La formula del racconto”, “Come creare i
personaggi”, “Inventiamo una trama”. Questo genere di truffa le viene a costare ventisette dollari.
Penso che parlare dell’arte di scrivere racconti in termini di trama, personaggi e tema sia come
descrivere l’espressione di un volto precisando la posizione degli occhi, naso e bocca. Ho sentito
studenti dire frasi del tipo: “Me la cavo benissimo con le trame, ma coi personaggi non ci so proprio
fare”, oppure: “Ho in mente un tema, ma non una trama adatta”, e addirittura: “Avrei una buona
storia, ma mi manca la tecnica”.
Tecnica e’ una parola che tirano sempre in ballo. Una volta sono andata a tenere una
conferenza in un club di scrittori, e nell’intervallo dedicato alle domande un’anima candida se n’è
uscita con: “Può dirmi qual e’ la tecnica del racconto a scatole cinesi?”. Ho dovuto ammettere che
ignoravo persino l’esistenza, ma quello mi ha assicurato di non esserselo inventato, visto che s’era
iscritto a un concorso per racconti del genere primo premio cinquanta dollari.
Ma lasciamo da parte chi e’ privo di talento, c’e’ anche chi il talento ce l’ha, ma brancola nel
buio perché’ non sa cosa sia veramente un racconto.
Presumo che le cose ovvie siano le più difficili da definire. Tutti credono di sapere che cos’e’
un racconto. Ma prova a chiedere a uno studente del primo anno di scriverne uno, ne caverai di tutto
o quasi: reminiscenze, episodi, opinioni, aneddoti, di tutto, insomma, tranne che un racconto. Il
racconto e’ un’azione drammatica compiuta, e in quelli piu’ riusciti i personaggi si svelano attraverso
l’azione, e l’azione e’ a sua volta condotta mediante i personaggi: il significato che se ne trae deriva
dall’esperienza nel suo complesso. Personalmente, preferisco definire il racconto un evento
drammatico che coinvolge una persona in quanto persona, e persona particolare – in quanto, cioè,
partecipe dell’umana condizione, e di una specifica situazione umana. Un racconto implica sempre, in
forma drammatica, il mistero della personalità. Ne ho prestati alcuni ad una signora di campagna che
abita in fondo alla mia strada, e lei me li ha restituiti dicendo: ”Beh – ‘sti racconti ti fanno vedere come
certa gente si comporta comunque”, e io ho pensato che avesse ragione; quando si scrivono racconti,
bisogna accontentarsi di cominciare proprio da li’: facendo vedere come certa gente si comporterà,
malgrado tutto.
Si tratta, certo, di un livello molto umile da cui partire, e infatti molti tra quelli convinti di
voler scrivere racconti non sono disposti a cominciare da li’. Vogliono parlare di problemi, e non di
persone, di questioni astratte, non di situazioni concrete. Hanno un’idea, un sentimento, un io
strabocchevole, o vogliono essere Scrittori, oppure elargire saggezza in forme abbastanza semplici
perché’ il mondo abbia ad assorbirle. In ogni caso, non hanno una storia in testa, e se anche l’avessero
non sarebbero disposti a scriverla; in assenza di storia, partono alla scoperta di una teoria, di una
tecnica, di una formula.
Con questo non voglio dire che scrivendo un racconto tu sia tenuto a trascurare o rinunciare
alla tua posizione morale. Le tue convinzioni saranno la luce alla quale vedere, ma non potranno
essere quello che vedi ne’ sostituiranno l’atto del vedere. Per lo scrittore di narrativa, tutto trova
verifica nell’occhio, organo che, alla fin fine, implica l’intera personalità’, e quanto più mondo riesca a
contenere. Implica il giudizio. Il giudizio e’ una cosa che ha origine all’atto della visione, e quando non
parte di li’, o ne e’ scisso, allora nella mente esiste una confusione che si trasferirà’ al racconto.
La narrativa opera attraverso i sensi, e uno dei motivi per cui, secondo me, scrivere racconti
risulta cosi’ arduo e’ che si tende a dimenticare quanto tempo e pazienza ci vogliono per convincere
attraverso i sensi. Se non gli viene dato modo di vivere la storia, di toccarla con mano, il lettore non
crederà’ a niente di quel che il narratore si limita riferirgli. La caratteristica principale, e più evidente,
della narrativa e’ quella d’affrontare la realtà tramite cio’ che si può vedere, toccare, sentire, odorare e
gustare.
E’ questa una cosa che non si può imparare solo con la testa; va appresa come abitudine,
come modo abituale di guardare le cose. Lo scrittore di narrativa deve rendersi conto che non e’
possibile suscitare la compassione con la compassione, l’emozione con l’emozione, o i pensieri con i
pensieri. A tutte queste cose bisogna dare corpo, creare un mondo dotato di peso e di spessore.
Ho notato che i racconti dei principianti sono solitamente infarciti di emozioni, ma di chi
siano queste emozioni spesso e’ difficile determinare. Il dialogo procede sovente senza il sostegno dei
personaggi che sia dato vedere, mentre il pensiero fuoriesce incontenibile da ogni angolo del racconto.
Ciò avviene perché il principiante e’ tutto preso dai suoi pensieri ed emozioni, anziché dall’azione
drammatica, ed e’ troppo pigro o ampolloso per calarsi nel concreto, dove opera la narrativa. E’
convinto che il giudizio stia da una parte e le impressioni dei sensi dall’altra. Per lo scrittore di
narrativa, invece, il giudizio comincia proprio dai particolari che vede e da come li vede.
I narratori che non danno importanza a questi particolari concreti peccano di quella che
Henry James definiva “specificazione fiacca”. L’occhio scivola via sulle parole e l’attenzione si
assopisce. Insegnava Ford Madox Ford che non si puo’ far comparire un uomo in un racconto il
tempo di vendere un giornale, a meno di mettercelo con quel tanto di particolari da renderlo visibile
agli occhi del lettore.
Ho un amico che sta prendendo lezioni di recitazione, a New York da una signora russa che
ha fama di essere un’ottima insegnante. Mi scriveva questo amico che per tutto il primo mese non
hanno pronunciato neanche una battuta, ma solo imparato a guardare. Imparare a guardare, infatti, e’
la base per l’apprendimento di qualsiasi arte, tranne la musica. Molti dei narratori che conosco
dipingono, non perché siano particolarmente dotati, ma perché dipingere li aiuta a scrivere. Li
costringe ad osservare le cose. Scrivere narrativa non e’ tanto questione di dire cose, quanto piuttosto
di mostrarle.
Affermare tuttavia che la narrativa procede per particolari non significa limitarsi ad
accumularli meccanicamente l’uno sull’altro. I particolari devono rientrare in un disegno complessivo,
e ogni particolare va messo al servizio dell’intento del narratore.
L’arte e’ selettiva. Quello che c’e’ e’ essenziale e crea movimento.
Tutto questo, pero’, richiede tempo. Un buon racconto non deve avere minor significato, ne’
azione meno compiuta di un romanzo. Nel racconto non va tralasciato nulla di essenziale al nucleo
della storia. L’intera azione deve essere adeguatamente motivata, e dotata di un inizio, uno sviluppo e
una fine, benché non necessariamente in quest’ordine. Secondo me, molti decidono di mettersi a
scrivere racconti perché sono brevi, e brevi in tutti i sensi del termine. Credono che un racconto
consista in un’azione incompiuta nella quale poco viene rivelato e molto suggerito, convinti che
suggerire significhi omettere. E’ difficilissimo distogliere uno studente da questa idea, perché
s’immagina che omettendo qualcosa si dimostrerà sottile; e quando gli vai a dire che una cosa bisogna
mettercela dentro, perché ci sia, quello penserà che sei un idiota privo di sensibilità’.
Forse la questione cruciale da valutare, parlando del racconto [short story], e’ cosa si intenda per
breve. Breve non vuol dire inconsistente. Seppur breve, un racconto deve svilupparsi in profondità e
trasmetterci una pienezza di significato. Una mia zia e’ convinta che se alla fine nessuno si sposa o
viene ammazzato, in una storia non succeda niente. Ho scritto un racconto su un vagabondo che, per
impossessarsi dell’automobile di una vecchia, ne sposa la figlia ritardata. Dopo la cerimonia, la porta in
viaggio di nozze con la macchina, l’abbandona in una trattoria e poi se ne va per la sua strada. Questa,
secondo me, e’ una storia compiuta. Sul mistero della personalità di quell’uomo non c’e’ nient’altro da
rivelare, attraverso questa particolare drammatizzazione. Ma non sono mai riuscita a convincere mia
zia che si tratta di una storia compiuta. Vuole sapere che fine ha fatto la ritardata.
Non molto tempo fa, dal racconto e’ stato ricavato un adattamento televisivo, e il soggettista,
conoscendo il proprio mestiere, ha fatto cambiare idea al vagabondo, il quale torna a riprendersi la
ritardata per poi proseguire il viaggio insieme a lei, ridendosela come matti. A sentire mia zia, la storia
finalmente e’ compiuta, mentre io sono di parere diverso… ma non credo sia il caso di esprimerlo in
pubblico. Quando scrivi un racconto, il racconto da scrivere e’ uno e uno soltanto, ma ci sarà sempre
chi rifiuterà di leggere quella particolare storia che tu hai scritto.
Il che ovviamente solleva la spinosa questione sul tipo di lettore a cui debba rivolgersi chi
scrive narrativa. Magari ognuno di noi pensa di avere una personale soluzione al problema. Per quanto
mi riguarda, ho un’altra opinione dell’arte del narrare, e una bassissima opinione del cosiddetto lettore
“medio”. Continuo a ripetermi che non posso evitarlo, che e’ questo il signore che dovrei tenere
sveglio, ma, al tempo stesso, so anche di dover fornire al lettore intelligente quell’esperienza profonda
che trovare nella narrativa. Di fatto entrambi i lettori non sono che due aspetti della personalità dello
scrittore, il quale, in fin dei conti, può conoscere un unico lettore: se stesso. Ognuno scrive secondo il
proprio livello di comprensione, ma la caratteristica precipua della narrativa e’ che la sua superficie
letterale può offrire intrattenimento sull’immediato piano fisico a un certo tipo di lettore e, al tempo
stesso, la medesima superficie può offrire maggior profondità di significato al lettore provvisto degli
strumenti per coglierla.
Il significato e’ ciò che impedisce al racconto di essere breve, pur nella sua brevità. Preferisco
parlare del significato di un racconto, piuttosto che del suo tema. La gente parla del tema di una storia
come se si trattasse dello spago con cui e’ legato un sacco di mangime per polli: se riesci ad
acchiappare il tema come se fosse il capo giusto dello spago, la storia ti si riverserà addosso e potrai
dar da mangiare ai polli. Ma non e’ questo il modo con cui il significato agisce nella narrativa.
Quando puoi stabilire quale sia il tema di un racconto, scinderlo dalla storia stessa, alla sta’ pur
certo che il racconto non e’ un granché. Il significato deve essere incorporato nella storia, calato nel
concreto. Il racconto e’ un modo per dire qualcosa che non può essere detto in nessun altro modo;
per trasmetterne il significato, ogni singola parola e’ indispensabile. Le storie si raccontano perché una
serie di considerazioni risulterebbe inadeguata. Se qualcuno ci chiede di cosa tratti una storia, l’unica e’
rispondergli di leggersela. Nella narrativa il significato non e’ astratto, ma vissuto, e formulare
considerazioni sul significato di una storia serve unicamente ad aiutarci a viverla con maggior pienezza.
La narrativa e’ un’arte che richiede la piu’ rigorosa attenzione per il reale – che si scriva un
racconto naturalistico o fantastico. Voglio dire che partiamo sempre da quel che esiste o che e’
altamente verosimile. Quando si scrive narrativa fantastica, la base giusta da cui partire e’ la realtà. Una
cosa e’ fantastica perché e’ tanto reale, e tanto reale da essere fantastica. Graham Greene ha detto che
non riuscirebbe mai a scrivere: “Me ne stavo su un abisso senza fine”, perché non potrebbe essere
vero, ne’: “Correndo giù per le scale saltai su un taxi”, perché neanche questo lo sarebbe. Mentre
Elisabeth Bowen può’ scrivere, di un suo personaggio femminile: “Si agguantava i capelli come se vi
sentisse urlare qualcosa in mezzo”, perché questo si’, e’ altamente verosimile.
Arriverei a dire che chi scrive un racconto fantastico debba prestare un’attenzione ancora piu’
rigorosa al particolare concreto, rispetto a chi scrive in chiave naturalistica - perché quanto più la
storia forza i limiti della credibilità, tanto più convincente dovra’ essere l’ambientazione.
Ne e’ un buon esempio La metamorfosi di Kafka. E’ la storia di un uomo che un mattino si
sveglia e scopre d’essersi trasformato, durante la notte, in uno scarafaggio, pur conservando la propria
natura umana. Il resto della storia ne narra la vita, i sentimenti, e infine la morte da insetto con natura
d’uomo, e la situazione viene accettata dal lettore perché i particolari concreti sono assolutamente
convincenti. In effetti, la storia descrive la dualità della natura umana in maniera talmente realistica da
risultare pressoché intollerabile. Qui non viene distorta la verità, ma piuttosto si ricorre alla distorsione
per arrivare alla verità. Se, com’e’ necessario, ammettiamo che l’apparenza e’ altra cosa dal reale,
dobbiamo allora concedere all’artista la libertà di riordinare la natura secondo un nuovo assetto,
purché ciò porti ad un approfondimento della visione. L’artista, dal canto suo, deve tenere sempre a
mente che quanto sta riordinando e’ la natura, e che per potersi permettere di farlo deve conoscerla ed
essere in grado di descriverla accuratamente.
Il tipico problema dello scrittore di racconti e’ come far si’ che l’azione descritta riveli quanto
più possibile del mistero dell’esistenza. Ha poco spazio per farlo, e le considerazioni non bastano.
Deve mostrare, non parlare, e mostrare il concreto: il suo problema e’, quindi, fare in modo che il
concreto assolva un doppio compito.
Nella narrativa di qualità, certi particolari tendono ad accumulare significato con lo svolgersi
dell’azione, e quando ciò accade acquistano un valore simbolico grazie al loro ruolo all’interno della
vicenda. Una volta ho scritto un racconto dal titolo Good Country People, in cui una dottoressa viene
derubata della propria gamba di legno da un venditore di Bibbie che aveva tentato di sedurre. Devo
ammettere che, parafrasata in questo modo, la situazione può sembrare soltanto uno scherzo di
cattivo gusto. Il fatto di assistere al furto di una gamba di legno diverte il lettore medio. Pur non
smettendo di allettarlo, la storia riesce, senza dichiarazioni d’intento troppo elevate, ad agire anche a
un altro livello d’esperienza, facendo si’ che la gamba di legno accumuli significato. Già all’inizio del
racconto veniamo a sapere che la nostra dottoressa e’ menomata non solo nel fisico, ma anche nello
spirito. L’unica cosa in cui crede e’ il fatto di non credere in niente, e noi avvertiamo che alla sua
gamba di legno corrisponde una parte, anch’essa di legno, della sua anima. Questo, pero’, non viene
mai detto chiaramente. Lo scrittore di narrativa spiega il meno possibile. Il lettore giunge a collegare le
due cose grazie a quanto gli viene rivelato. Forse non si rende nemmeno conto di fare un
collegamento, che pero’ c’e’, e sortisce comunque il suo effetto. Col procedere della storia, la gamba
accumula sempre più significato, e il lettore apprende quali sentimenti nutra nei confronti della gamba
la ragazza, quali la madre e quali la contadina del luogo. Alla fine, quando compare il venditore di
Bibbie, la gamba ha accumulato un significato tale da esserne, per cosi’ dire, carica. Quando l’uomo la
ruba, il lettore s’accorge che si e’ portato via una parte della personalità della ragazza, svelandole cosi’
per la prima volta l’altro, più intimo, tormento.
Se volete, potete anche dire che la gamba di legno e’ un simbolo. Ma e’ innanzitutto una
gamba di legno, e proprio in quanto tale e’ assolutamente indispensabile al racconto. Ha una sua
collocazione sul piano letterale della storia, ma agisce in profondità, oltre che in superficie. Il racconto
può cosi’ espandersi in ogni direzione, e sfuggire in tal modo al suo destino di brevità.
Potrei ora dire qualcosa su come ciò avvenga. Non crediate che per scrivere quel racconto io
mi sia seduta a tavolino dicendo: “Adesso scriverò un racconto su una dottoressa con una gamba di
legno usando quest’ultima come simbolo di un altro genere di tormento”. Dubito siano poi tanti gli
scrittori che quando si mettono all’opera sappiano già quel che vogliono. Nel cominciare il racconto,
non sapevo nemmeno che ci avrei messo dentro una dottoressa con una gamba di legno.
Semplicemente, una mattina mi sono trovata a descrivere due donne di cui sapevo un paio di cose, e,
prima che me ne rendessi conto, una delle due era già stata dotata di figlia con gamba di legno. Man
mano che il racconto procedeva, ho introdotto anche il venditore di Bibbie, pur non avendo ancora
idea di cosa ne avrei fatto. Fino a dieci o dodici righe prima non sapevo nemmeno che avrebbe rubato
la gamba, ma quando ho scoperto quanto stava per accadere, ho capito che era inevitabile. E’ una
storia che sciocca il lettore, e una delle ragioni e’ che ha scioccato per primo il narratore.
Nonostante sia nato cosi’, in questo modo apparentemente involontario, il racconto non ha
quasi subito revisioni. Sono riuscita a controllarlo durante l’intera stesura, e viene da chiedersi come
abbia fatto, non essendone completamente cosciente.
Credo che la risposta stia in quel che Maritain definisce “habitus dell’arte”. Che lo scrivere
narrativa sia un qualcosa dove interviene l’intera personalità – il lato conscio come quello inconscio
della mente – e’ un dato di fatto. L’arte e’ l’habitus dell’artista; e come tutte le abitudini deve mettere
radici profonde in tutta la personalità, e va coltivata nel tempo, mediante l’esperienza. Insegnare a
scrivere, in generale, consiste soprattutto nell’aiutare lo studente a sviluppare quest’habitus. Pur
trattandosi di una disciplina, non credo si riduca solo a questo; credo sia un modo di guardare al creato
e di usare i sensi per cogliere nelle cose quanto più significato possibile.
Sarei ingenua se pensassi che chi viene alle conferenze degli scrittori vuole sentirsi dire quale
sia la visione giusta per scrivere racconti che entrino in pianta stabile nella letteratura. Certo, vuol
sentire anche questo, ma le preoccupazioni principali sono di ordine pratico. Vuol sapere,
concretamente, come si fa a scrivere un buon racconto, e inoltre, come si fa a riconoscerlo una volta
scritto; e cosi’ vorrebbe sapere quale sia la forma del racconto, quasi che la forma fosse un’entità’ a se’
stante da applicare o imporre sul materiale. Più scrivi, invece, e più ti rendi conto che la forma e’
qualcosa di organico che scaturisce dal materiale stesso, e che e’ unica per ogni racconto. Se vale
qualcosa, un racconto non può essere ridotto, ma solo ampliato. Un racconto e’ riuscito se puoi
sempre vederci qualcosa di più, se continua a sfuggirti di mano. Nella narrativa due più due fa sempre
più di quattro.
Credo che l’unico modo per imparare a scrivere racconti sia scriverne, e poi, in un secondo
tempo, cercare di capire quel che si e’ fatto. Soltanto col racconto già sotto gli occhi, si può riflettere
sulla tecnica. Quel che l’insegnante può fare per lo studente e’ esaminare il suo lavoro aiutandolo a
capire se abbia scritto una storia compiuta, una storia in cui l’azione illumini a pieno il significato.
Forse la cosa più utile da fare e’ che io vi esponga alcune mie osservazioni generali sui sette
racconti che ho letto. Benché non si riferiscano a nessun racconto in particolare, si tratta di punti sui
quali chiunque voglia scrivere non farebbe male in ogni caso a riflettere.
La prima cosa che uno scrittore professionista nota leggendo un testo e’, naturalmente, l’uso
della lingua. Beh, tranne per un’unica eccezione, in questi racconti l’uso della lingua e’ tale che sarebbe
difficile distinguerli l’uno dall’altro. Ricordo chiaramente d’essermi imbattuta in parecchi cliché, ma
non c’e’ una sola immagine o metafora che mi venga in mente di questi racconti. Non voglio dire che
le immagini non ci fossero; dico semplicemente che nessuna era abbastanza efficace da rimanerti
impressa.
A questo proposito, ho notato un’altra cosa che mi ha alquanto allarmata. Con l’eccezione di
un solo racconto, nessuno ha praticamente fatto uso dell’idioma locale. Siamo qui a un convegno di
scrittori del Sud. Tutti i racconti recavano indirizzi della Georgia o del Tennessee, eppure della
particolare atmosfera del Sud non c’e’ traccia. I pochi nomi geografici sparsi qua e la’, come Savannah,
Atlanta o Jacksonville, avrebbero potuto benissimo essere rimpiazzati da Pittsburgh o Passaic, senza
che per questo la storia richiedesse altre modifiche. I personaggi parlavano come se non avessero mai
sentito un linguaggio diverso da quello uscito dal televisore. E’ evidente che qualcosa non quadra.
Due sono le qualità che fanno la narrativa: una e’ il senso del mistero, l’altra il senso dei
costumi. Quest’ultimo lo ricaviamo dal tessuto dell’esistenza che ci circonda. Il grande vantaggio
d’essere uno scrittore del Sud e’ quello di non dovere andare lontano a cercarseli; buoni o cattivi che
siano, ne abbiamo in abbondanza. Noi del Sud viviamo in una società ricca di contraddizioni, d’ironia,
di contrasti, ma soprattutto ricca di lingua. Eppure, ecco qua sei racconti di gente del Sud dove non si
fa quasi uso delle nostre ricchezze.
Forse il motivo e’ che avete assistito a un tale abuso di questi elementi da sentirvi imbarazzati
a continuare ad usarli. Non c’e’ niente di peggio di uno scrittore che, invece di far uso delle ricchezze
regionali, ci sguazza dentro. Allora tutto diventa cosi’ tipicamente meridionale da risultare
stomachevole, cosi’ locale da essere incomprensibile, cosi’ riprodotto alla lettera da non comunicare
più nulla. Il generale si perde nel particolare, anziché svelarsi attraverso di esso.
D’altra parte, se la vita reale che ci circonda viene completamente ignorata e i nostri modelli di
linguaggio del tutto trascurati, allora c’e’ qualcosa che non va. Lo scrittore dovrebbe chiedersi se non
sta per caso rincorrendo un tipo di vita che gli e’ innaturale.
Una società e’ caratterizzata dal suo idioma, e ignorandolo si rischia di ignorare anche l’intero
tessuto sociale che rende significativo un personaggio. Se tagli fuori i personaggi dalla società in cui
vivono, non potrai dir molto di loro in quanto individui. Non si può dir niente di interessante sul
mistero di una personalità, senza inserirla in un contesto sociale credibile e significativo. E il modo
migliore per farlo e’ mediante l’idioma stesso del personaggio.
Quando la vecchia signora di una racconto di Andrea Lyte dice sprezzante che il suo mulo e’
più vecchio di Birmingham, in tutta quest’unica affermazione noi avvertiamo tutto il senso di una
società e della sua storia. Uno scrittore del Sud si ritrova con gran parte del lavoro già fatto ancor
prima di cominciare, perché nella nostra parlata vive la nostra storia. In un racconto di Eudora Welty,
un personaggio dice: “Dalle mie parti usiamo le volpi al posto dei cani e i gufi al posto dei polli, pero’
le cantiamo che e’ una bellezza”. In un’affermazione del genere c’e’ un intero libro; e se la gente delle
tue parti parla cosi’ e tu fai il sordo, vuol dire che non sai approfittare di ciò che e’ tuo. La nostra
parlata ha un suono troppo preciso per essere impunemente messa da parte, e se lo scrittore cerca di
sbarazzarsene, rischia di distruggere il meglio della sua forza creativa.
Un’altra cosa che ho osservato in questi racconti e’ che non scavano quasi mai a fondo nei
personaggi, che non rivelano molto il loro carattere. Non dico che non si calino nella mente del
personaggio, ma non mostrano che ha una personalità. Il che si riallaccia, in parte al problema della
lingua. I personaggi non hanno una voce atta a rivelarli; e talvolta non hanno nemmeno tratti propri a
contraddistinguerli. Alla fine hai la sensazione che nessuna personalità emerga perché non c’e’ nessuna
personalità. Spesso in un buon racconto e’ proprio il carattere del personaggio a determinare lo
sviluppo dell’azione. Mentre, in questi racconti, mi sembra quasi che lo scrittore abbia prima pensato
all’azione, e poi rimediato alla meglio un personaggio in grado di compierla. Facendo il contrario, di
solito, le cose riescono meglio. Se cominci da una personalità vera, da un vero personaggio, qualcosa
accadrà per forza; e non c’e’ bisogno di sapere cosa sia prima d’iniziare. Anzi, devi scoprire qualcosa di
nuovo dai tuoi racconti, perché se non ci riesci tu, sarà difficile che ci riesca qualcun altro.
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